Il tempo nascosto nella voce di Alma
Emanuela Giacca
Quando l'ho sentita la prima volta la voce di Alma familiarizzava con la ragazzina del piano di sotto e voleva sapere tutto del suo gatto, voleva sapere come si chiamasse e perché si accoccolasse in quel modo al sole. Si affacciava dal balcone del quinto piano e iniziava a chiamare forte: «Carolina, Carolina!».
A volte Carolina rispondeva, altre volte la sua finestra restava chiusa e Alma se ne tornava in cucina a giocare col fratellino Giulio, ma Giulio era troppo piccolo per rispondere, allora Alma provava a dare voce anche a quel bambino a cui non era ancora concesso di parlare.
«Giulio vuole l'acqua», spiegava alla tata.
«Ah, vuole l'acqua?», rispondeva la tata fra i gemiti di Giulio, finché Alma decideva di cedergli il suo bicchiere ricolmo.
«Tieni, Giulietto!», la sentivo dire, seguito da un «Dammi il cinque, Giulietto!»: un monologo destinato a restare tale ancora per qualche tempo.
Lo chiamava 'Giulietto' ma poi c'era sempre un motivo di contesa, uno strillo con cui il bambino Giulio rivendicava un diritto che Alma non era disposta a concedergli: «Giulio è cattivo», sentenziava.
«Voglio la mamma», gridava, «Dov'è la mamma?», e la mamma era lì, pronta a placare il suo pianto che s'intrecciava a quello di Giulio, mentre la tata scaldava il burro per le cotolette facendo appannare tutti i vetri. «La mia tata oggi per pranzo fa le cotolette», aveva annunciato Alma alla Carolina.
Per molto tempo Alma è stata per me solo una voce, mi arrivava dalla prospettiva angolare del mio appartamento sbilenco, un appartamento a cui sono affezionata anche se non ha la lavastoviglie, anche se non c'è nessuno con cui scegliere cosa mangiare per cena.
«Eccolo, il mio papà!», diceva tutta orgogliosa alla Carolina vedendolo rincasare, mentre il padre già la prendeva in braccio scusandosi per la sua impudenza. «Quando sarà il compleanno di Nina posso venire a casa vostra?», aveva chiesto Alma riferendosi al gatto: «Che carina la vostra Nina, io non l'ho mai avuta», aveva detto, dopo aver sussultato di nuovo per una persiana battuta dal vento. «Chi è stato?», chiedeva ogni volta mettendo in pausa il mondo.
La voce di Alma somigliava a un cupcake tempestato di zuccherini sprinkles, dava pieno fiato ai polmoni con la forza minuta dei suoi quattro anni, gonfiava le vocali, faceva tintinnare le consonanti, ma non era soltanto il suono, era quello che la voce conteneva, una testardaggine variegata di sorpresa, una gioiosità di fondo che virava verso il pianto per ogni minimo imprevisto, come Giulio che le gettava a terra la bambola, come la collana di conchiglie che si spezzava togliendole l’appetito.
Appena possibile sono tornata in Molise, mi sono presentata dai miei senza avvisarli. Mi hanno guardato come due cuccioli spauriti, indecisi se abbracciarmi o meno, esitanti per via di quel virus che avrebbe potuto infiltrarsi nel nostro abbraccio. Sono rimasta una settimana, il tempo di abituarmi a un'altra vita, fatta di caffè al sole e grigliate in giardino, negli spazi dilatati di una casa vera, nel tepore della loro presenza. Il pane arrivava fresco ogni mattina col camioncino di Lucio, Mariano era quasi sordo e Lucio doveva chiamarlo quattro o cinque volte prima che Mariano si facesse sull'uscio - la schiena ogni giorno più curva, così curva che per poco la fronte non gli toccava a terra. «Maria', Maria'», strillava Lucio aiutandosi col clacson.
Al mio ritorno a Milano ho trovato il padre di Alma davanti al portone d'ingresso, si sporgeva verso l'interno della Skoda per mettere in sicurezza i bambini, il bagagliaio ancora aperto con le borse per il weekend al mare. «Sono i tuoi bambini? Fammeli vedere», gli ho detto.
Alma è rimasta in posizione sul seggiolino, la schiena diritta e la faccia increspata, le sopracciglia sollevate fino a spostare la frangetta: «Giulietto!», ha sorriso, additando il fratellino che le sedeva accanto. Ha detto così, «Giulietto», guardandomi fisso negli occhi come per garantirmi che avevo capito bene, che erano proprio loro, Alma e Giulio in carne e ossa. Giulio sembrava così mansueto, diverso da come lo avevo immaginato, con tutte quelle pieghe sulla pelle, tenere tenere. Anche la voce di Alma era diversa: meno sonora, più diretta, venata di una maturità che non riconoscevo.
«Sulle ali del mondo, nel cielo infinito...», cantava mentre io varcavo il portone trascinando le valigie col cambio estivo.
È il tragitto dal cortile al ballatoio il più difficile, le valigie diventano più pesanti, io più piccola a ogni scalino.